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La città del piacere
Il
nocchiero latino, che fa vela verso l'altra riva del Mediterraneo, scruta
dall'alta prora l'orizzonte brumoso, E' tanto nero quell'orizzonte, che si
confonde col mare: solo in alto in alto, attorno al mezzo della notte
illune, brilla velata qualche stella, e solo un occhio molto esperto può
tracciarvi il disegno d'una costellazione.
Il vento è propizio, costante, quasi gagliardo: spira
diritto in poppa, tiene ben gonfie le due grandi vele quadre, e trae dagli
alberi, dal sartame e da tutti i legni che reggono i primi e trattengono il
secondo, un concerto quasi melodioso e gaio di schianti, sibili e
schricchiolii, che il mare accompagna col chiaro fruscio dell'onda
tagliata. Certo hanno benedetto quel vento i rematori, che ora dormono sui
gironi e sotto i banchi. Ma che ne pensa il nocchiero che spia dalla prora?
Naviga già da molti
giorni e notti, dovrebbe essere quasi giunto all'altra riva del mare; e
quel vento non potrebbe essergli fatale fra poco, tra le insidie del buio
e d'una costa rocciosa? Il viso è teso, sì, ma senza angoscia; pare
tranquillo, fiducioso, teso soltanto dall'impazienza. E d'un tratto si
schiarisce e gli occhi brillano.
Che ha visto laggiù? La bruma è sempre fitta,
nera... Ah! Ma è mai possibile? Una stella a fior d'acqua in quella
caligine, quando tutte le altre sono velate sin quasi allo zenit! Eppure
non è un inganno degli occhi, è proprio una stella, vivida, ridente, di più
in più grossa. Pare che ingrossi a vista d'occhio, che tutti i sensi la
vedano e fissino ogni fibra viva in quella buia immensità.
Affascina e rincora ridendo, e chiama e attira. Infatti
la prora ha virato e ora fende il mare diritto a lei. Non s'è mai vista una
stella sì grande in nessun firmamento. E guarda! Oh, meraviglia! Raggere
sempre più distinte s'allungano sul mare, braccia di luce spalancate,
irresistibili!
Il nocchiero è andato a poppa e, seduto sul tavolato al
fianco dell'uomo che tiene la barra del timone, continua a guardare
sorridendo la stella stupenda. L'ha già vista molte volte, pure non può
staccarne gli occhi nè vincere la meraviglia sempre nuova. Poiché questa è
una stella creata dall'uomo, l'unica che guidi il nocchiero anche quando
tutte le altre son celate: è la luce di Faros, una delle sette meraviglie
del mondo, che poi, attraverso secoli e millenni, darà il suo nome a tutte
le torri di luce.
La raggera, proiettata da grandi specchi metallici, è
lunga 55 chilometri: magica via luminosa che la nave percorre sicura,
abbandonandosi al buon vento quasi ad occhi chiusi, mentre si drizza
sull'orizzonte il gigante che l'emana. E' una torre ottagonate tutta di
marmo bianco, una pila di prismi tutti ugualmente alti, ma degradanti in
grossezza sino all'altezza prodigiosa di 180 metri. Fu costruita da
Sostrate di Cuida, sotto il regno di Tolomeo Filadelfio, due secoli prima
dell'epoca di questa storia, all'estremità orientale dell'isola di Faros
che, a una distanza di circa un chilometro e mezzo, si stende quasi
parallela alla costa.
Ai suoi piedi s'apre lo Stretto del Toro. l'imbocco del
Porto Reale, formato, dall'altra parte, dall'estremità del Diabatra, un
frangiflutti che prolunga di traverso, cioè nel senso dell'isola, il Capo
Lochias, col quale si chiude a levante la riva quasi diritta. Giunta sotto
la fulgida meraviglia, la nave ammaina, dà di piglio ai remi e,
costeggiando cautamente la chiara base, tra le spume fragorose dell'onde
infrante a dritta e a manca, entra nel Porto Reale.
Certo il nostro nocchiero è privilegiati da una
missione ufficiale o qualcosa di simile, poiché altrimenti dovrebbe
aggirare l'isola a ponente e cercarsi un posto nell''immensa selva di
navigli d'ogni sorta dell'Eunosto, il Porto del Buon Ritorno, il più grande
e più ricco porto commerciale di tutto il mondo conosciuto.
Dà fondo in disparte dalle galee maestose che vagamente
rilucono, schierate in vari ordini di fronte alla sterminata distesa
azzurrina della città addormentata, quasi spettrale. E anche lui si corica
e dorme, poiché sa che quei cittadini non sono mattinieri.
Intanto il passo immutabile del Tempo prosegue, sopra gli uomini effimeri e
le loro cose caduche; e a grado a grado la notte si stempera, si
schiarisce. Un frego livido, lungo l'orizzonte marino di dietro il Capo Lochias, si accende come una lama arroventata, e pare l'orlo d'un cratere
infiammato, in cui lentamente si sciolgano le tenebre. La spuma dei
frangenti è già più bianca, e la nera massa del promontorio si staglia
contro la luce sorgente, disegnando già distintamente le moli e le linee
dei palazzi che compongono la residenza dei Tolomei, la più grandiosa
della terra.
La torre di Faros pare assorbire la luce con
tutti i suoi massi faccettati, quasi per avvivare la sua che impallidisce.
E' un immenso fantasma che le ombre dei suoi piani e lati troncano e
fendono stranamente. A un tratto il suo braciere si spegne, e quasi al
tempo stesso incomincia il canto frenetico della vita più libera ed
intensa.
Gabbiani saettano dalle scogliere, e presto sono
nugoli vorticanti e assordanti sopra il mare; innumerevoli uccelli
cinguettano e schiamazzano nelle folte masse verdi che dovunque attorniano
ed ammantano marmi e graniti; e trampolieri d'ogni sorta traversano il
cielo in teorie solenni, venendo dai canneti del lago Mareotis, dietro la
città, e dal Nilo che sfocia poco più in là a levante. E in quel clamore ch'è il primo sospiro della
vita ridesta d'una terra fecondissima, sorge il sole dal seno di Ftah, il
padre di tutte le vite mortali ed immortali, l'eterno Nilo.
Allora si desta e rialza anche il nostro nocchiero.
Guarda prima il cielo, il suo cielo, poiché questo, come il suo clima, è
prettamente italiano; poi la città che, nel primo riso del sole, avvampa e
risplende con tutti i suoi marmi, diaspri, graniti, porfiri, ori, cimase
d'elettro e smeraldi di verzure: Alessandria l'incomparabile, la città di
tutte le meraviglie e di tutte le voluttà, il manto abbagliante sciorinato
sotto le cornucopie di tutte le fortune, il crogiolo di tutte le razze e di
tutte le passioni, l'ultima mensa suprema dei sensi e dello spirito, la
città del piacere eterno!
In comincia fin dal mare. La torre di Faros è ora
un'immensa vampa rosea di sole, che le faccette stemperano in un'ombra
color acciaio. All'altro capo dell'isola spicca, tra folte fronde, il
bagliore del tempio d'Iside, congiunto alla città dalla bianca linea
diritta dell'Ettastadio, una gettata di massi marmorei lunga 1300 metri.
Nel Porto reale, quasi in mezzo, si specchia nell'acqua limpidissima il
padiglione reale dell'isolotto Antirodi. E a sinistra s'allunga nel mare il
Capo Lochias con tutte le sue magnificenze.
Davanti è uno splendore di meraviglie quasi ammassate.
In primo piano il Museo, che contiene la più grande biblioteca del mondo,
ricca d'un mezzo milione di rotoli di papiro. Dietro, a sinistra, verso il
Capo Lochias, sorge su un'altura il teatro; e dietro questo, su un
monticolo artificiale di rocce sovrapposte quasi in forma di pomo di pino,
domina il Paneo, il tempio di Pan, cui accedono a spire bianche scalee di
marmo. A destra, l'immenso Ginnasio presenta al mare la sua bianca fronte
di puro stile dorico, e un porticato d'esili colonne lungo 170 metri; e
attorno fanno corona gli edifizi del tribunale, sparsi tra giardini e
boschetti. Avanti, presso il molo e a destra del teatro è il Foro; e di
contro, sul molo, il tempio di Nettuno. A destra di questo, presso il Museo
ed in mezzo alla cinta detta Soma, sorgono le tombe dei Tolomei, ordinate
attorno al mausoleo d'alabastro di Alessandro il Grande, il fondatore della
città.
Tutti monumenti di stupende proporzioni e perfezioni,
che si presentano al mare in un sol gruppo d'indicibile armonia ed
imponenza, degradante sino nell'acqua con una sinfonia marmorea di scale e
statue. E questo è il volto dell'immensa città, ora tutta risplendente.
Il nostro nocchiero lo guarda sorridendo e gonfiando il
gran petto. E' pratico di questa città, ch'è casa sua come di tutte le
genti del Mediterraneo. Volgendo attorno lo sguardo, i suoi occhi si
fermano fissi a levante, oltre Lochias e le sinagoghe del quartiere ebreo
disteso dietro quel promontorio; e si socchiudono ricordando le frenesie
collettive del grande ippodromo ch'è laggiù, e fors'anche cose più
individuali, vissute là vicino, nel giardino d'Eleusi, ove risiedono le
cortigiane sacre, maestre di tutte le voluttà.
Poi d'un tratto, forse per un'associazione di immagini,
si volta a guardare dall'altra parte, verso l'Eunosto ed il turbolento
quartiere popolare di Rachotis, che gli sta a ridosso, dominato, dalla
parte opposta, dall'imponente mole del tempio di Serapide, il più grande
monumento del mondo dopo il Capitolo di Roma, al quale mette, attraverso la
città, un'ampia via diritta, , che prolunga nel mare l'Ettastadio.
Guarda anche diritto davanti a sé, oltre la città, verso
la Porta del Sole ed il porto interno del lago Mareotis, che accoglie, con
i canali del Nilo, i prodotti di tutto l'Egitto e di tutta l'Africa, ed è
anche più grande e più ricco del marittimo, stendendosi su un'ampia ansa
del lago, attorno ad otto isole incantevoli che sembrano proiettate dalla
fantasia d'un poeta, ondeggiano ad ogni minima brezza selve fitte fitte di
papiro, nelle quali s'insinuano e si perdono snelle barchette, ciascuna con
una coppia.
Il nostro nocchiero gonfia ancora il gran petto. Chissà
quanti ricordi evoca in lui la vista di questo magnifico formicolaio umano,
quante avventure, quante lotte, quante delizie! Ma non rimpiange nulla:
nulla è mutato qui, e tutto si può rivivere come la prima volta e meglio,
qui, nella città del piacere eterno. |
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Il primo incontro
Ma oggi anche il nostro pratico nocchiero si
meraviglierebbe dell'animazione di queste strade sì larghe, diritte,
simmetriche ed ombrose. Che succede? Una festa d'Osiride dionisiaca o una
delle solite sommosse? Che cosa sta per scorrere, vino o sangue?
Tutti corrono alla via del Canopo, da tutte la parti
della città, dall'Ippodromo e dallo Stadio, dalla reggia e dai porti, dai
templi e dai lupanari. E pare che vi corra tutto il mondo, tanto è svariata
la folla: egiziani e libiani, bruni, adusti, muscolosi e felini; greci
statuari, slanciati e nervosi; siriaci, ebrei, arabi e filistei di Garza e
d'Ascalonne, quasi uguali nelle vesti, nel colorito e nella forma allungata
del capo; grandi beduini dal viso dolce e fiero, sorridenti con bagliori di
denti bianchissimi tra peli nerissimi; semiti d'Assiria dalle lunghe chiome
unte ed arricciate col calamistro; sumeriani dal capo appiattito e raso
alla sommità, liguri ed iberi, piccoli, bruni e tarchiati; slavi, celti e
germani, rossi di pelle e di pelo, e cerulei negli occhi; sudanesi, etiopi
e garamiti dal petto nudo e nero come il basalto, e dai capelli crespi
stranamente ammontati; seriani e malesi con occhi obliqui in facce color
limone, mossegeti con berretti aguzzi, circassi del Caucaso, ariani dell'Irano,
indostani, medi, lidiani, traci, sarmati, sciti e tanta altra gente d'altri
paesi.
Tutta gente scalmanata che si pigia e rimescola
vociando ed imprecando in innumerevoli idiomi e dialetti, con un clamore di
suoni di ogni varietà fonetica, dominati dall'aspra lingua egiziana e dalla
chiara e scorrevole parlata greco-macedone. Certo non solo per gli ostacoli
che ne contrastano il cammino, nonostante l'ampiezza delle strade e delle
piazze; ma certo anche per questi. Carri per lo più carichi di masserizie
arraffate in fretta, cavalli e cavalieri impazienti, e lente carovane di
cammelli e d'elefanti attraversano la folla o vogliono andare contro
corrente. E di tratto in tratto bisogna far largo a cortei di sacerdoti e
sacerdotesse o di funzionari e dignitari, o correre a un riparo per non
essere travolti da valanghe di soldati che vanno a briglie sciolte come per
strade deserte. E ogni poco bisogna sormontare alte barricate di pietre,
terra e travature; e sempre bisogna boccheggiare in un polverone che
s'accende al sole festoso e fantasticamente vela e confonde la moltitudine
di toghe, pepli, clamide, stole, palii, abolle, flamme, tonache greche e
romane, misti a camici striati, a gonne e veli sgargianti e svolazzanti, a
rozzi sai e serici calzoni asiatici, a broccati ed a cenci.
Tuttavia chi non è calpestato o pugnalato o altrimenti immobilizzato riesce
bene o male a portarsi sulla via del Canopo. Questa è la più lunga e
maestosa. Larga trenta metri, attraversa la città, diritta diritta, in
tutta la sua lunghezza, dalla porta del Canopo, l'estremità orientale, alla
Necropoli, di là da Racotis, ov'è l'ultimo quartiere occidentale, quello
degl'imbalsamatori e preparatori di cadaveri; e prosegue a levante sino
alla città omonima, sino al Delta del Nilo. Solenni colonnati ed
enigmatiche sfingi la fiancheggiano per un tratto di ben cinque chilometri,
ogni sfinge sovrastante una statuetta del dio Alessandro; e verso il mezzo,
ch'è anche il mezzo della città, la traversa quasi ad angolo retto la via
che mette dalla Porta della Luna alla Porta del Sole, cioè dalla Reggia al
lago Mareotis, ugualmente larga, diritta e ornata.
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